Ricordi

Immagini

Uno dei mitici santuari del fuoco! Il povero bidello Cazzanti del liceo Ariosto, allora, in via Borgoleoni dove ora c’è il Tribunale, veniva mandato da qualche genio a caccia di “fuochisti”. Ovviamente non vedeva volontariamente mai nessuno. Era diventato un divertente siparietto fisso. Alla faccia di qualche genio privo del senso del ridicolo!

Gualtiero Becchetti

Primi innamoramenti silenti. I miei genitori mi avevano vietato di andare al Parco Massari. Una volta da lontano, vedo entrare mio padre. Terrorizzata (una volta era così) sono riuscita ad uscire nascondendomi tra gli alberi, mentre mio padre entrava per cercarmi.

Liana Montalto

Le ghiande e le caprette, il motoscafo radiocomandato nella fontana, all’ingresso i ciuccetti e le brustoline e ogni tanto anche il carretto con i gelati.

Pizziamoci da Gianlu

Io mi ricordo quando in fondo al parco c’erano i daini. Ero piccolissima, ci andavo con mio padre. Poi crescendo ci ho trascorso gran parte della mia adolescenza. Che ricordi!

Monica Tessitore

Caro Parco Massari, quante emozioni quando passo a trovarti, e mi accogli sempre a braccia aperte! Ho ricordi stupendi, indelebili, nonostante non abbia fotografie e video a supporto della memoria, e per fortuna! A quei tempi, primi anni Novanta, non c’erano i cellulari e tanto meno i social. Soprattutto nel periodo dell’adolescenza eri diventato il mio luogo sacro, il mio rifugio, il mio migliore amico. Quante volte facevo fuoco, così si dice a Ferrara quando non si va a scuola, e venivo da te! Ovviamente all’insaputa dei miei genitori. Una volta di queste, in primavera, successe che alcuni ragazzini, abituati a scherzare con le ragazzine in questo modo, mi presero e mi gettarono nella fontana, piena di simpatici pesciolini rossi. Risultato: quella volta non potei sottrarmi dal raccontare ai miei genitori la verità, ovvero che ero passata a trovarti anziché andare a scuola, visto che il mio rientro a casa fu con abiti completamente inzuppati d’acqua nonostante la stupenda giornata di sole. Ti lascio immaginare i rimproveri… ma quanto mi divertii! Riemergono anche i ricordi dell’infanzia: ricordo i colori della rigogliosa natura e degli animali che ospitavi all’interno di enormi gabbie in ferro battuto, svariati uccelli ed in particolare i miei amati pappagalli. Ricordo tanti bambini. Famiglie e amici che si davano appuntamento proprio da te. Le emozioni, così come i tuoi colori, sono rimaste immutate nel tempo. Mentre scrivo sorrido e mi sento bene dentro. Grazie Parco Massari. Grazie del regalo che fai alla mia anima ogni volta che ti vedo o ti penso. Tua, Silvia.

Silvia Mazzoni

A me che venivo dalla campagna, apparivano ridicole le ricercate attenzioni prodigate dai cittadini ai loro rari alberi. Chiusi nei parchi, insigniti di targhette di ottone che riportavano nomi latini e circondati da aiuole fiorite, mi sembravano tutti alberi di Natale fatti col fil di ferro e le frange di plastica, da aprire come ombrelli per le feste e da ornare di palline colorate. Più di tutti mi irritavano i due cedri del Libano cui passavo davanti ogni mattina per andare a scuola. Sembravano una coppia di quei turisti americani che dedicano l’ultimo fiato delle loro grasse vite a visitare l’Europa. Girano per le nostre città in canottiera, convinti che i pittoreschi selvaggi siamo noi. Scrutano i nostri monumenti con lo sguardo metà annoiato e metà incuriosito di un dentista di fronte ad una carie laboriosa da otturare. Convinti che Napoleone fosse un generale comunista assassino di Giulio Cesare e che per questo insensato crimine fosse stato fucilato dagli inglesi a Waterloo, vicino a Parigi, comprano con la stessa insensibilità paccottiglia ed opere d’arte, croste che si intonino con la moquette dei loro salotti e vestiti di poliestere made-in-germany, tanto sempre Europa è.

La mia nitida ingenuità di allora mi faceva pensare che i cedri del Libano avrebbero dovuto starsene in Libano, perché ognuno dovrebbe stare a casa propria e non infastidire gli altri con la propria diversità. Se già per gli uomini trovavo disdicevole e vano il viaggiare, figuriamoci per le piante. Così vecchie, poi, mi sembravano ancora più perverse, un aberrante capriccio della natura che si tramandava nei secoli. Quale arrogante presunzione le animava? Erano forse imprigionate in quelle fronde cupe diaboliche divinità che avevano sfidato il Creatore in una gara di eternità? Per vivere così a lungo era senz’altro la vita altrui che succhiavano. Tutto attorno a loro sarebbe lentamente morto, l’erba ingiallita, la terra inaridita, ridotta a polvere che il vento avrebbe sbattuto contro i marmi dei palazzi. E con gli anni, anche quelli sarebbero crollati, risucchiati nella voragine che le radici dei cedri incessantemente scavavano e che col tempo avrebbero ricoperto la città e poi il mondo finché nei millenni l’universo intero non sarebbe stato altro che un intrico di radici e rami pietrificati. Avrebbero mozzato il fiato alle stelle, stritolato i pianeti in mille briciole sabbiose e Dio stesso sarebbe dovuto fuggire lontano, ai confini dello spazio, sull’orlo del nulla. Io la pianta più vecchia che conoscevo era la vite di mio nonno: aveva cinque anni e lui già parlava di estirparla. Da me che la campagna mutava senza sosta di anno in anno ed il granoturco lasciava umilmente il posto alla barbabietola e dove un’estate c’era il celeste abbaglio della risaia l’anno dopo, come grossi bruchi si gonfiavano al sole i cocomeri, non c’era posto per piante che pretendono di campare per secoli, che attraversano indenni la morte di intere generazioni di uomini senza neanche prendersi il disturbo di perdere le foglie. Ne ero certo, in questa faccenda degli alberi secolari doveva esserci qualcosa di diabolico. Che poi uno dei due cedri, cresciuto malamente e con gli anni troppo ripiegato in avanti, fosse sorretto da un’apposita struttura di metallo, lo trovavo abominevole. Cominciavo ormai a pensare che la città fosse un luogo di sofisticato vizio dove le leggi della natura erano sospese e abbattuta ogni distinzione fra i regni animale, vegetale e minerale. La vita di rocce e piante si confondeva con quella degli uomini. Quei due cedri color marmo erano più nobili di me perché mentre di loro si conosceva tutto intero il vertiginoso passato, il mio arrivava appena alle soglie del secolo. I pioppi della mia campagna, malgrado le accette dei contadini, erano capaci di crescere in un estate, scalzi lungo gli argini dei canali, sugosi come canne, spensierati come tutte le creature che alla vita non chiedono nulla, neanche di durare. Nessuno si sarebbe mai preoccupato di correggere le loro malformazioni, di appenderli in un traliccio per farli crescere composti. Provvedevano da soli, mirando dritto verso il cielo. Per loro, come per me, il bene ed il male erano due cose distinte.

Il pomeriggio, dopo le paurose lezioni di greco, era un sollievo tornare nel gocciolante silenzio della mia campagna. Quelle parole scritte al rovescio e che nessuno sapeva bene come si pronunciassero doveva essere la lingua segreta in cui comunicavano i due cedri e tutte le altre diaboliche creature della città. I miei pioppi invece parlavano in dialetto. Avevano la mia stessa età e nelle lunghe ore che passavo sui libri si affacciavano al davanzale della mia finestra per tenermi compagnia, per raccontarmi che dall’altra parte del cielo stava tramontando il sole, che più alto di loro, gonfio di odori lontani, passava muto il vento. E avrei voluto essere un pioppo anch’io, intrecciare le mie radici alle loro e non vedere mai più la città, i cedri del Libano, le aule color ferro del liceo, i vetri della corriera coperti di gocce, soprattutto, non sentire mai più l’odore di segatura bagnata e focaccia fritta.

Ma non avevo fatto i conti con l’arcana e smisurata potenza dei cedri del Libano. Aiutati da una dirompente primavera, le loro radici mi raggiunsero nel mio fangoso rifugio e mi contaminarono. Allora anch’io fui preso da un’irresistibile desiderio di eternità. Ma non per me, no. Per i sentimenti nuovi che mi crescevano dentro. In poco tempo anche per me far parte del mondo animale, vegetale o minerale non ebbe più importanza. Perché quel che mi accadeva colpisce le componenti più infime della materia, dove nessuna distinzione ha più senso, neanche quella fra la vita e la morte. In quei giorni io morivo e resuscitavo in continuazione. Non fuggivo più l’ombra austera dei due cedri. Anzi mi ci attardavo. Gli occhi imprigionati in un colore che non ho visto mai più, incidevo sul legno delle panchine iniziali che sognavo indelebili. Adesso lo sentivo il profumo di sciroppo dei cedri, mescolato a quell’altro odore selvatico di una pelle sconosciuta. Adesso la vedevo la loro resina stillare dal legno rosso, colarmi addosso e rinchiudere il mio abbraccio in una scultura d’ambra rossastra. Presto i prati attorno a me si coprirono dell’invidia bianca dei miei pioppi lontani. Sapevano che non sarei tornato più, che anch’io ero rimasto prigioniero di una vana promessa d’eternità.

È passato tanto tempo ed oggi che sono corso da loro, oggi che sono qui a cercare il loro sguardo non mi riconoscono più, non hanno più ombra per me. Perché io non appartengo più al caduco mondo della campagna, non partecipo più al grandioso rimescolio delle stagioni, al prodigio dei colori che diventano odori. Sono diventato un cedro del Libano, maledetto, immortale ed un pesante traliccio di ferro mi sostiene il cuore.

Diego Marani

Vecchi amici - Grandi Alberi a Ferrara, Corbo editore (1996), Cedro del libano

“Trentacinquenne di aspetto gradevole, sano, onesto, cultura universitaria, economicamente indipendente, amante viaggi, cerca compagna pari requisiti possibilmente mora per conoscenza ed eventuale unione. Scrivere allegando foto figura intera a Fermo Posta……”

Ecco, guarda questo cretino qui. Sarà un bancario frustrato, magari pelatino causa lo stress, che però fa un po’ di palestra e a casa si guarda allo specchio ritirando la pancetta e decide che insomma almeno può dire di essere di aspetto gradevole. Si farà un paio di viaggi organizzati all’estero ogni anno, comprati a buon prezzo fuori stagione, facendo di volta in volta una pallina sull’atlante per vedere quanto ha girato il mondo. E non si renderà certo conto di non aver visto e capito niente. Quest’uomo è fuori dal mondo. S’è perso e l’ha capìto. Vede gli anni che passano, i capelli che cadono e un bel niente intorno. Ed ecco il cretino che decide di lanciarsi dalle pagine del giornaletto locale. Che coraggio! Ci avrà pensato per mesi. E scritto e riscritto l’annuncio cento volte. E cosa pensa di fare il genio? Comincia subito mettendo le mani avanti: “pari requisiti” scrive. Requisiti? Ma che schifezza di parola è? Dio mio, sarà anche che esistono e che contano, ma è orribile chiamarli requisiti. Viene da pensare alla dentatura di un cavallo o all’airbag lato passeggero. E poi la vuole mora, forse perché la vede bene in un tailleur rosso quando lui indossa la giacca Principe di Galles. E poi la vuoi vedere prima, per stabilire se la candidata merita una chance o va subito cestinata, lui l’onnipotente e onnisciente sultano che capisce tutto da un cartoncino 10 x 15. Già si immagina a ritirare quatto quatto la posta per poi andare a casa di corsa e mettersi sul letto e fare un bel respirone – ci siamo! – e aprire le buste con cura e disporre tutte le foto affiancate per i debiti paragoni. Affiderà così il suo destino al Postalmarket dell’amore e se qualche “pari requisiti”- e dunque altrettanto cretina – risponderà e si piaceranno e si sposeranno e avranno dei figli, vorrà dire che avremo perso la ghiotta occasione di vedere accelerata la tanto attesa estinzione della razza dei cretini.

Vabbé, adesso che ho ringhiato posso stare tranquillo. Sto diventando come quei bastardini bruttini con un dente fuori dal muso che aspettano sul ciglio della strada che passi un chiassoso centauro per abbaiargli contro inseguirlo forsennatamente per una decina di metri, per poi tornarsene indietro tutti soddisfatti e baldanzosi ad occupare il loro posto. Il loro posto, già. E il mio qual è? È forse questo, oggi 16 agosto a Ferrara, all’ombra del Parco Massari? Qui in fondo, dove non c’è tanta gente, dove le coppiette si infrattano ad amoreggiare e i guardoni attenti perlustrano? Dove a me piace venire perché c’è il ginko? Sarà, ma comunque avverto anche qui quello sfrigolio sotto i piedi che da qualche tempo mi accompagna ovunque. Una vaga sensazione di irrequietezza da carboni ardenti che mi sale dai calcagni e non mi dà tregua.

Io però non sono un cretino e di amore me ne intendo e lo ritengo un ottimo requisito.

Ecco vedi, ad esempio sta arrivando una ragazza, una mamma giovane con la sua bambina di più o meno 8 anni. Per giunta è bella, anzi è bellissima, anzi, oddio, si ferma proprio qui vicino, mamma mia è stupenda! Ecco vedi, stavo dicendo, adesso mi prende anche l’emozione, io saprei cosa dire a questa qua. Giocano a palla a volo. Sta insegnando alla bimba come colpire di bagher. Io impazzirei in una di queste situazioni dove il 98 % del tempo viene impiegato a raccogliere la palla. Guarda invece lei com’è paziente, e come se la ridono. È bellissima anche la bambina, coi

capelli neri, lunghi, lucidi e puliti. La mamma invece li porta corti a caschetto come piacciono a me, e ha il collo lungo e le spalle larghe belle squadrate, la figura snella e i polpacci eleganti ma robusti (si vedono solo i polpacci perché ha un vestitino di cotone cintzato a fiori) , caviglie sottili, piedi che guardano leggermente all’indietro. Ecco vedi, saranno questi i requisiti, ma non è così che funziona. Funziona che adesso ho il cuore che batte a 100 e mi si è improvvisamente asciugata la bocca. Funziona che la guardo e mi sento travolto da un rapimento amoroso e solo dopo cerco di darmi delle spiegazioni. È solo raccontandolo che si è costretti a descrivere e allora saltano fuori i cosiddetti requisiti. Ma ti pare in tono questa schifezza di parola e il suo brutale stupidissimo significato, con questo splendore di donna e con l’emozione che sto provando? E bada che la bellezza non c’entra. Quella c’è, ma non sta lì il segreto. E il segreto, giacché è un segreto, non ha una spiegazione. Fatto sta che io questa la sposerei domani, con la bambina e tutto quanto, perché tanto so già quello che importa di più, cioè che questa mi dà secchezza delle fauci e tremenda tachicardia. E vivremmo felici per tutta la vita, facendo altri bambini ai quali lei insegnerebbe a colpire di bagher, mentre io suderei beato a raccogliere mille volte la palla. Peccato per il marito, nel senso che avrà marito. Beato lui. Però fammi vedere, non porta la fede. Buon segno! Potrebbe essere vedova o separata, disgrazie ne capitano a tutti, magari non si è mai sposata. Oppure non porta la fede solo perché le dà fastidio. Comunque insomma una speranza c’è, o insomma mi piace crederlo perché ne ho bisogno.

Sai cosa le direi? Le chiederei se anche lei viene fin qui perché le piace il ginko, che si pronuncia ginko come l’ispettore nemico di Diabolik, ma che si scrive correttamente ginkgo e che deriva dal giapponese gin-icho, albero argenteo, anche se in autunno diventa completamente giallo oro e allora non si capisce cosa c’entri l’argento, ma si sa i giapponesi… E poi le farei vedere che ne ho una foglia secca nel portafoglio, e le mostrerei che si dice biloba perché ha due lobi, e che assomiglia a un cuore ed è per quello che la tengo. E poi le racconterei di quando piccolino venivo qui di nascosto marinando la scuola a tirare al bersaglio con la carabina Diana del mio amico che la rubava al padre… e che una volta un vigile quasi ci voleva portare in questura, ma siccome era un vigile ci hanno spiegato poi che la questura non c’entrava, ma insomma noi abbiamo passato un bello spavento. E poi le confesserei che porto sempre qui le mie innamorate e dico loro sempre le stesse cose, anche se in fondo le innamorate non sono state tante e non è colpa mia se non ci sono più, e allora mi sentirei giustificato a ripetere le cose sempre uguali, perché uguale è il sentimento, il desiderio e la mèta. E poi le direi che cos’è per me l’amore: l’amore per me è essere in viaggio su una nave, di notte, e sul ponte trovare una piccola fotografia coi bordi dentati e i colori sbiaditi, sbattuta dal vento che quasi la spinge fuori bordo. E raccoglierla, e vedere un ragazzo di nemmeno vent’anni vestito alla marinara, coi capelli folti riportati indietro alla mascagna, il viso dolce, infantile, e gli occhi che parlano. E guardare indietro e trovare scritto “Offro con affetto e amore la mia immagine con l’uniforme di marina alla mia Nitta, al mio amore. Ti amo, tuo con un bacione, Mario. 22/5/1955″. E stringerla e carezzarla e portarla a casa e conservarla nel cassetto dove stanno le cose più preziose. E ogni tanto tirarla fuori e pensare che l’amore non si perde mai per sempre, che prima o poi qualcuno lo ritrova.

Poi raccoglierei una foglia del ginko e gliela offrirei dicendole “questo è il mio, se lo vuoi”.

Ecco vedi, quello deve essere il marito. Andiamo a casa va’, metterò un annuncio.

Roberto Giacometti

Vecchi amici - Grandi Alberi a Ferrara, Corbo editore (1996), Ginkgo biloba - Parco Massari

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