Palazzo Zanardi

Via Carlo Mayr 163, Ferrara

In questo giardino si scende in profondità nella storia ferrarese, non solo metaforicamente: la curiosità dei suoi attuali proprietari e le operazioni necessarie al restauro del palazzo hanno fatto emergere dal sottosuolo strati e strati di vicende, certezze e domande.

Dal cortile dove oggi si incontrano il grande tiglio e le prosperose magnolie, piantate una trentina di anni fa, fino al 1890 passava l’antica via delle Volte. Il selciato originale, composto di grandi piastrelle di cotto, è stato disseppellito durante i primi lavori di sistemazione: «la casa l’abbiamo comprata nel 1982, nessuno la voleva – raccontano gli attuali proprietari Laura e Enzo -. Era distrutta, anche l’esterno era disastrato. Per metterla a posto ci abbiamo messo dodici anni. Durante il cantiere trovavamo di tutto: rimasugli di cornicioni gotici e a torciglione, non abbiamo buttato via niente». L’edificio ha un passato di tutto rispetto. Nel Duecento fu una delle tante case a torre ferraresi e, sebbene di quell’epoca resti poco, se ci si avvicina alla fontanella bianca – infilata nell’esuberante siepe di gelsomino selvatico – e si alza lo sguardo sulla sinistra, verso il retro della costruzione, si possono ancora vedere alcune tracce delle tipiche lombardesche, archetti sottili che oggi si perdono tra i mattoni. In seguito pare essere diventata una delle numerose dimore di Sigismondo d’Este, fratello di Ercole I, capitano generale delle armate del Duca. Di questo importante inquilino si ha traccia sia nel rogito del 1501, sia negli stemmi estensi che decorano gli interni, che riportano l’inquartato con i tre gigli d’oro di Francia, l’aquila dell’impero, l’impresa del diamante e – su cartiglio – parte del motto WOR BAS, lo stesso che si legge sul bassorilievo del Castello.

L’immobile nei secoli passò di mano in mano fino ad arrivare, nel 1843, anche a Carlo Mayr, tra i protagonisti del risorgimento italiano, che già possedeva il palazzo vicino. Fu proprio il noto avvocato a voler chiudere il tratto di via delle Volte compreso tra via Giuoco del Pallone e via Cammello, per problemi di ordine pubblico e degrado – probabilmente legati alle frequentazioni delle tante osterie e case chiuse che lì si affacciavano. La modifica fu sancita nel 1861, dopo una lunga trattativa con l’amministrazione pubblica cui partecipò anche la famiglia Turbiani, che abitava accanto. Gli affreschi seicenteschi che oggi decorano l’androne, staccati e fermati su quattro pannelli, provengono dal sottotetto: «li abbiamo trovati all’altezza del pavimento, probabilmente le stanze originali erano più alte e si chiudevano con delle volte a botte». Rappresentano uomini e donne distesi, circondati allegramente da festoni di foglie e frutti, pere e albicocche soprattutto, vegetali che con garbo e ironia sembrano alludere ai piaceri della carne. La figura femminile ricorda le divinità agresti, simbolo di fertilità, con le dita della mano destra infilate nelle falde di un cappello invita con la mano sinistra il giovane disteso e seminudo, che occhieggia benevolo reggendo una clava. Di particolare interesse è il soldato che tiene tra le proprie gambe, per i capelli, una testa umana: potrebbe ricordare Davide e Golia. I restauratori credono possa rappresentare un monito conforme al repertorio iconografico della Controriforma: il giovane guarda altrove, il suo atteggiamento è di repulsione, allontana la testa d’uomo e poggia l’altra mano su un libro, che si può interpretare come una Bibbia.  Le armi sono depositate ma latenti, rivolte in alto, pronte ad essere impugnate. 

«Ci sono anche tantissimi putti e amorini dipinti, li abbiamo trovati dappertutto». L’ambiente – illuminato dai raggi del sole che provengono dal giardino, filtrati dalle vetrate blu e arancio del portone in ferro battuto – è profondamente solenne, induce alla contemplazione e al silenzio, eppure le storie che racconta sono tante. Il porticato è solo una porzione dell’originale, l’altra metà dovrebbe proseguire in quella che oggi è l’abitazione dei vicini. Il pozzo vicino alle colonne marmoree è asciutto, mancava anche la struttura: quella che si vede oggi è stata comprata in Veneto. Un altro pozzo, dal carattere decisamente originale, è stato scoperto a due passi dall’androne, quando si rese necessario scavare la buca per l’ascensore: si tratta di un pozzo da butto, fondamentalmente una discarica casalinga. «Gli operai non volevano avvicinarsi e non volevano nemmeno che io mi ci avvicinassi, almeno in orario di lavoro. Allora quando finivano la giornata mi calavo là dentro da sola, tutta imbragata come se dovessi scalare una montagna. Mi teneva appesa una corda legata in cima a una trave. Sono riuscita a scavare fino a sei metri e mezzo di profondità, ho smesso quando ho cominciato a trovare solo sabbia fine. Ho recuperato di tutto! Cocci di ceramica ferrarese che ho incollato un pezzo alla volta, col Vinavil, ma anche una mandibola di cavallo e tantissimi femori di aironi, che in epoca rinascimentale erano particolarmente apprezzati a tavola. Dopo pochissimo tempo i tombaroli iniziarono ad aspettarmi fuori casa, perché la voce di quello che stavo trovando girava in fretta. Insistevano perché gli lasciassi vendere alcuni pezzi, con la promessa di dividere i profitti, ma non mi sono mai fidata!». Gli anni del recupero furono anni di esplorazioni, accompagnati da piccole e grandi scoperte: «ci rendemmo conto che sotto le cantine non c’erano le fondamenta. Probabilmente quando furono costruite il Po correva ancora dove ora si trova la strada, quindi affacciavano direttamente sull’acqua». Dove oggi si trova il garage invece c’erano le scuderie, e alle pareti ancora si vedono gli anelli utilizzati per allacciare le redini dei cavalli. Al posto delle carrozze oggi in giardino si trovano alberi, arbusti e tantissimi fiori, ciascuno con una propria memoria. Gli oleandri, per esempio, vengono dalla Sardegna: «avevo staccato un rametto di un alberello selvatico a Cala Luna, lo tenevo in barca dentro a un bicchiere d’acqua. Lo trasportai fino a Ferrara infilato in una bottiglia di birra e poi lo accomodai prima in un vasetto in cucina, poi in un vaso più grande in terrazza. Continuava a crescere e mise le radici, fino a quando capii che era arrivato il giorno di piantarlo a terra».  Gli agapanti arrivano dal Portogallo – «ho girato mezza Lisbona per trovarli!», mentre la varietà di geranio che colora il balconcino sopra al garage viene da un’isola della Grecia. Lo spazio è protetto, oltre che dal gelsomino selvatico, anche dalla robusta siepe d’alloro e dalla splendida ortensia rampicante, che sale verso le finestre. A terra si incontrano – assieme alle classiche piante aromatiche – crochi e ciclamini, fiori di lillà, violette, calle. Nella vasca cresce l’ortensia quercifolia. Raccolgono il calore estivo il mandarino e il limone. D’inverno fioriscono gli ellebori e il calicanto. 

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