Palazzo Rossi

Via Savonarola 34, Ferrara

Dentro l’archetipo. Il giardino di via Savonarola 34 è il sogno di un bambino, benevolo eppure misterioso, protetto dal suo confine certo eppure avventuroso e fantastico, nella misura in cui l’ombra e i fruscii tra gli arbusti suggeriscono la possibilità di eventi straordinari.

L’impressione che si ha in questo luogo è quella di stare attraversando una soglia. Da una parte c’è la strada, il quotidiano, la società, la normalità, la casa. Dall’altra parte cosa c’è? L’idea del confine magico da varcare si esprime nell’arco che separa l’ombra dell’androne dalla luce del giardino, appesantito dalla grande bignonia rampicante, ma anche – per chi arriva passando attraverso l’abitazione – nella sottile scala a chiocciola che scende a terra dalla terrazza in pietra, che fa girare la testa a ogni gradino.  L’impianto rettangolare delle vecchie siepi ricorda l’accesso al labirinto, i busti in terracotta –  danneggiati appena dal passare del tempo – salutano chi entrando li oltrepassa. La loro identità è incerta, si racconta potrebbero essere Averroè e Socrate, non quindi delle guide da seguire ma compagni di viaggio impegnati a porsi delle domande.

Non poteva mancare il pozzo, un ulteriore varco tra mondi reali e immaginari, tra ciò che è risaputo e lo sconosciuto che vive nell’oscurità, sottoterra, cavità che connette l’aria e l’acqua, avvicina la realtà al suo riflesso specchiato. La famiglia degli attuali proprietari abita qui dall’inizio del Novecento, anche se le prime notizie del palazzo si hanno da un contratto di affitto datato 1711. Del passato però non ci sono molte notizie. Laura – che abita qui – racconta che tutto è rimasto com’era nei suoi ricordi di bambina, e ancora prima com’era nei ricordi di sua nonna. Con i rosai, il pitosforo, l’edera, la serenella, il melograno, i tassi che avranno sicuramente quasi cento anni se non di più, a terra i giacinti azzurri e le viole. Di curare le piante e gli alberi si occupava inizialmente la bisnonna, poi la nonna, infine – e ci teneva a farlo personalmente – anche suo padre. «Una volta il giardino era molto più vissuto, ci passavamo il pomeriggio. Si giocava e si mangiava il gelato, quando passava il furgoncino di Bida». Il gioco di Laura adulta, munita di vanga e stivali, è stato quello di scavare: due mesi di lavoro per i quali è stata presa in giro da parenti e amici, fino a quando non ha trovato qualcosa. «Avevo frequentato un corso di ceramica graffita e avevo pensato che, dato che a Ferrara si trovano reperti dappertutto, avrei potuto trovare qualcosa anche qui. È stato divertente ma non sono un’archeologa, non ho fatto stratigrafie. Sono scesa fino a due metri e mezzo, poi ha cominciato a salire l’acqua dalla falda e ho smesso. Ho recuperato i resti di un focolare, con il carbone, ossa di animali, cenere, pezzi di pentolacce e contenitori da cucina molto grezzi. Ma anche frammenti di cose più importanti: piatti di ceramica graffita dove si vedono i colori e i decori tipici del rinascimento estense, con foglie e fiori di giglio. C’è anche il profilo di una damina. La ceramica monastica la si riconosce perché è monocroma, più sobria. Su alcuni pezzi si vede ancora il segno del treppiede sul quale veniva cotto il materiale». Il buco adesso è ripianato: stava in fondo al giardino, sulla destra, vicino al muro che confina con il convento. Un altro accesso al sottosopra, momentaneamente chiuso. 

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