Il Barcone di Flavio
Ciclabile FE20, Ferrara (Ravalle)

Le piccole frazioni come Ravalle sembrano recenti: buona parte delle loro abitazioni sono state evidentemente realizzate negli anni del boom economico, tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta.
Questo per esempio è il caso della simpaticissima villetta color verde oliva che si incontra sotto la strada che sale verso l’argine, di fronte ai tavoli per il picnic. La casa sembra sorridere, perfettamente simmetrica, con la doppia rampa di scale, le tapparelle smeraldo e la tenda che svolazza davanti alla porta, dello stesso colore.
In realtà l’insediamento ha origini antiche: viene citato per la prima volta in un documento del 900. Il suo nome potrebbe derivare dalla parola riv, quindi significare riva o declivio. L’impressione di trovarsi davanti a un paese “nuovo” non va tuttavia accantonata: si vive qui da secoli, ma le piene hanno più volte obbligato a riedificare. Tra le più recenti e calamitose si ricorda quella del 1812, che inondò completamente l’abitato.
Prendendo come punto di riferimento la villetta verde oliva, basta salire il terrapieno e camminare pochi passi per trovare un esempio di come l’acqua, le intemperie e la vegetazione riescano a disintegrare ciò che sembra solido e sicuro: appena sotto l’argine si incontra una vecchia struttura in rovina, con gli alberi che sbucano dalle finestre, i mattoni crollati e una esuberante catalpa che fa bella mostra di sé, in mezzo alle rovine. Questo è un ottimo spot fotografico per gli amanti del gusto romantico, in senso proprio ed ottocentesco, ma guai ad avvicinarsi! A sinistra del rudere si trovano la scaletta in ferro e la passerella mobile che portano al barcone di Flavio, perfetta antitesi della costruzione mezza crollata. Perché opporsi solidi alla corrente che trascina via, se si può salire e scendere insieme alle onde?


Questa piccola ma confortevole struttura si appoggia su due grandi scafi di cemento, simili in tutto e per tutto a quelli che sorreggono i pochi ponti galleggianti rimasti operativi sul Po. Oggi è una postazione della memoria e un punto di incontro, aperto ai curiosi, a chi vuole fare due chiacchiere davanti al tramonto, a chi non ha paura di avvicinarsi e domandare: c’è qualcuno qui? Può essere che non ci sia nessuno, ma se c’è qualcuno… è garantita la più calorosa, interessante e gustosa ospitalità.
Tra gli argomenti che vale la pena affrontare “a bordo”, dopo essersi goduti qualche minuto di silenzio, ammirando la corrente, c’è sicuramente il ritratto che Michelangelo Antonioni offrì di questi territori, nel suo primo documentario del 1943, Gente del Po. Per il regista il fiume assumeva, nella sua vastità e nelle sue dure condizioni di vita, aspetti di paesaggio estremo, quasi africano. Il filmato ritrae la vita di intere famiglie di braccianti agricoli che formavano delle comunità seminomadi: vivevano dentro a convogli di grandi barconi, trainati da un rimorchiatore, e attraccavano a riva per offrirsi come manodopera stagionale, nei campi di canapa e frumento. Di quei convogli non è oggi rimasto quasi nulla, ma in alcuni approdi – come questo – si possono incontrare ancora dei barconi in funzione, frequentati da persone che con il fiume continuano ad avere un rapporto quotidiano.
Un ulteriore traccia del rapporto che legava il regista a questo peculiare paesaggio la si può trovare nelle sequenze iniziali de Il Grido, ambientate proprio in questa stessa golena. Dal barcone di Flavio basta osservare il promontorio dell’argine e confrontarlo con gli scatti: non è cambiato nulla da allora, la stessa ansa, gli stessi pioppi, la stessa calma.