Convento di San Francesco

Via Coramari 6, Ferrara

La storia di questo rigoglioso brolo non è semplice, come apparentemente potrebbe sembrare. L’appezzamento da qualche anno è curato da Fra Graziano, e per conoscere il motivo bisogna tornare indietro almeno fino al 1200.

Già a quell’epoca i francescani scelsero di stabilirsi qui, in una porzione di città che all’epoca assomigliava ben poco a un centro urbano. L’intero quartiere era spoglio e disabitato, perfetto per chi cercava pace e tranquillità, tanto da essere scelto nel 1228 anche da Sant’Antonio, per il proprio soggiorno in terra estense. I religiosi avevano appena costruito il primo edificio che avrebbe dato vita, col passare del tempo, a un importante complesso, dotato di chiesa (edificata tre volte), convento con due chiostri e un bell’orto protetto da un profondo fossato. La prima chiesa gotica corrisponde alla meravigliosa sala polivalente, purtroppo non accessibile al pubblico dal terremoto del 2012.

La seconda chiesa venne edificata in corrispondenza dell’attuale, nel 1341, per volere dei marchesi Rinaldo e Nicolò d’Este, che proprio lì vollero poi essere seppelliti. La splendida struttura che oggi tutti conoscono e ammirano risale alla fine del Quattrocento, fu progettata da Biagio Rossetti. Nel 1606 si aggiunse il campanile disegnato dall’Aleotti, che tuttavia ebbe problemi di cedimento a causa del terreno paludoso e venne parzialmente demolito, per questo resta pendente. Le soppressioni napoleoniche causarono un vero e proprio cataclisma: i due chiostri vennero distrutti, si può intuire dove fosse la struttura che li separava guardando il filare alberato che divide il parcheggio.

Il vecchio refettorio venne utilizzato come essiccatoio per la canapa. I francescani tornarono solo negli anni Sessanta: la chiesa era stata attribuita al Ministero dell’Interno e tuttora appartiene al Fondo Edifici di Culto. Il convento e la sala vennero ricomprati da privati. Si arriva così al brolo di via Coramari, dove oggi crescono il susino di Velletri, detto anche “coscia di monaca”, il president, il goccia d’oro, il sorriso di primavera e quello di Felisio. Con il ciliegio, il kaki, due giuggioli, il nespolo giapponese e il nespolo germanico, il melo pera, l’albicocco di Imola, normale e tardivo, l’albicocco cafone, il melo imperatore e l’abondant. Potenzialmente ci potrebbero essere anche le mele Fuji, ma in realtà l’albero non le produce, perché sente la mancanza del terreno di montagna. L’esemplare più vecchio tra i presenti è a sorpresa il melograno nano, che ha superato i sessanta. Fra Graziano l’ha portato con sé in tutti i suoi spostamenti, da Monselice a Vicenza, fino a San Zeno, sempre in vaso. Qui ha finalmente messo le radici a terra. 

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