Cimitero Ebraico

Via delle Vigne 16, Ferrara

Il cimitero viene fatto risalire al 1626, quando gli ebrei ferraresi chiesero a Urbano VIII il permesso di acquistare un terreno per le proprie sepolture: la licenza ottenuta prescriveva che il luogo non superasse le 20 staia ferraresi e che fosse indicato dal vescovo o dal vicario.

In realtà la lapide più antica del cimitero, intitolata a David Franco e datata 1549, avvalora la tesi di chi sostiene che il cimitero potrebbe risalire al XVI secolo. «Luogo satanico, frequentato dai diavoli, nel pregiudizio popolare fomentato dall’Inquisizione; luogo di pace e di luce mediterranea per gli ebrei che, muniti di lasciapassare, potevano recarvi i loro morti dal lontano Ghetto murato soltanto a certe ore consentite, quasi in segreto», così raccontava lo studioso Paolo Ravenna, che qui riposa insieme al padre Renzo, avvocato e politico. Durante l’Inquisizione le tombe furono saccheggiate e alcuni marmi addirittura utilizzati per la colonna che regge la statua di Borso d’Este, davanti al Palazzo Municipale. L’impressione che si ha visitando il vasto parco è quella di addentrarsi in un posto dove il tempo si è fermato.

L’ultimo ampliamento e restauro significativo si ha nel 1911, con la sistemazione dell’imponente portale d’ingresso progettato da Ciro Contini. «Delimitato torno a torno da un vecchio muro perimetrale alto circa tre metri», scrisse Giorgio Bassani nel romanzo L’odore del fieno, «il cimitero israelitico di Ferrara è una vasta superficie erbosa, così vasta che le lapidi raccolte in gruppi separati e distinti, appaiono assai meno numerose di quanto non siano.

Dal lato est, il muro di cinta corre a ridosso dei bastioni cittadini, fitti ancor oggi di grossi alberi, tigli, olmi, castagni, perfino querce, allineati in duplice schiera lungo le sommità del terrapieno». Anche lo scrittore riposa qui, con un monumento ideato dallo scultore Arnaldo Pomodoro e dall’architetto Piero Sartogo. Uno dei luoghi più affascinanti di Ferrara, descritto con grande capacità evocativa anche da Guido Fink: «perché lì, fra quel verde, in fondo a quell’infilata di strade che dall’angolo Mazzini-Terranuova arriva a via delle Vigne, si torna a pensare che quel che si pensava, ingannevolmente, tanti anni fa, prima che il nostro secolo mostrasse il suo vero volto: che tutto passi, che a tutto si debba “fare l’abitudine”».

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