Centro studi Dante Bighi
Via Carletti 108, Copparo

Villa Bighi sorge sul limitare settentrionale del centro abitato del Comune di Copparo ed è l’unica opera di architettura moderna disegnata dall’eclettico grafico e artista Dante Bighi, e fatta realizzare su un terreno di famiglia. Costruita nel 1963, rappresenta una delle opere di architettura moderna “minore” del territorio ferrarese ed emiliano-romagnolo.
Villa Bighi non è mai stata una semplice abitazione. Durante tutta la vita del proprietario, questo luogo divenne uno spazio espositivo in cui mettere in mostra il proprio lavoro e la passione per l’arte e le cose belle, che lo ha spinto a collezionare oggetti da tutte e parti del mondo. Questi spazi hanno ospitato artisti, intellettuali, politici e personaggi dello spettacolo trasformando il soggiorno in un salotto buono in cui costruire progetti ambiziosi e fumare sigari. La casa ha una pianta basata sulla forma di una doppia “L”, accoppiata e simmetrica. Il mattone, elemento tipico delle costruzioni rurali, domina tutto il fabbricato ed evidenzia i tre corpi principali della villa, favorito dalle forti pendenze delle tre falde del tetto e dalle semplici geometrie. Le due “L” creano due unità originariamente separate e disegnano due cortili, uno esterno alla cucina e uno nella zona giorno. Grandi finestre, lunghe vetrate e boiserie creano una stretta relazione tra gli interni della villa e il parco tutt’intorno. Il linguaggio architettonico della villa e il luogo in cui è immersa vivono in simbiosi, accentuando il fascino a-temporale di un luogo che ci sembra poter esistere da cento anni come da un solo giorno. Tenendo presente le lezioni dei fondatori dell’International Style, con probabili particolari riferimenti ad Alvar Aalto, Dante Bighi ha concepito gli interni della villa in dialogo con le rigide forme geometriche evocate dai prospetti esterni.
L’ambiente principale è la zona giorno che accoglie l’ospite fin dall’ingresso e separa dagli spazi privati. Questo gioco dell’accogliere e dell’isolare ha avuto un’importante funzione soprattutto agli inizi: Villa Bighi è nata come residenza privata, suddivisa in due appartamenti, uno per Dante e l’altro per il fratello Donato. Le fotografie degli anni ’60 mostrano interni ammobiliati in stile sobrio e funzionale ed esterni ancora caratterizzati da una vegetazione prettamente a scopo produttivo (con la presenza 144 alberi da frutto). Nel corso degli anni la villa cambia gradualmente destinazione:da abitazione familiare a casa della cultura, e ne sono testimonianza gli interventi di modifica degli interni: sparisce la parete divisoria tra i due appartamenti, viene inserita la grande vetrata di 20 mq, spostata in posizione più esterna rispetto alle aperture che prima aprivano su un piccolo porticato, il pavimento in cotto viene rivestito della moquette verde acido e i muri portanti vengono dipinti di rosso e nero, connotando fortemente le forme pure della costruzione. La casa è costruita su un unico piano, con un livello rialzato, ricavato dalle pendenze di una delle tre falde del tetto. Questo livello è nato per contenere 3 stanze da letto per gli ospiti e un bagno, oggi è l’area di deposito degli oggetti che non vengono esposti.


Non è dato sapere se riguardi la costruzione ex novo dell’edificio oppure la ristrutturazione di un casale più antico, da rinnovare e adattare alle esigenze della modernità. Sicuramente qui soggiornarono per vari periodi i fratelli Antonio e Giuseppe Delfini. Antonio, avvocato, fu un patriota del Risorgimento italiano. Dopo la rivolta popolare che travolse Ferrara nel 1831, egli fu nominato tra i membri del governo provvisorio che doveva guidare la città e difenderla dagli austriaci. Insieme a Gaetano Recchi venne in seguito nominato rappresentante per Ferrara e Bologna nel Governo delle Province Unite, che comprendeva anche i territori di Ravenna, Forlì, Pesaro, Ancora e Perugia. Il fratello Giuseppe, notaio ed ex carbonaro, già condannato a morte dai tribunali austriaci e per questo imprigionato a Venezia e a Lubiana, divenne negli stessi anni responsabile dell’ufficio di polizia. Nella biblioteca della villa – dove Antonio morì, nel 1855 – si conservano numerosi documenti e scritti risalenti a quel travagliato periodo, che varrebbe la pena studiare e approfondire.


Oggi la casa – che in tempi più recenti ha ospitato anche lo studio del medico del paese – non ha più degli inquilini stabili, viene aperta solo occasionalmente. Nel parco che la circonda – insieme alla siepe di bosso, piantata nell’Ottocento – si incontrano le vecchie robinie, le querce e il melo cotogno. Da notare la gleditsia, conosciuta anche come spino di Giuda, e la sofora japonica, arrivata dal Kenya. L’area verde, circondata dall’alloro e punteggiata di ibisco, ospita un piacevole frutteto domestico e un filare di noccioli. La palma è stata piantata dalla bisnonna, che nutriva una vera e propria passione per gli alberi tropicali, e li portava qui dalla propria casa bolognese, quando si trasferiva a Sabbioncello per trascorrere l’estate. «Chi pianta datteri, non mangia datteri», amava ripetere, alludendo alla crescita lenta delle piante, considerate come un regalo per le generazioni a venire. Dietro la villa, dove una volta si trovava l’aia, si staglia uno spettacolare lauroceraso, cresciuto a forma di albero, accompagnato dal pino domestico e dal cedro. In fondo resta ancora la vecchia stalla.