Casa Rimini Gallico

Via Fratelli Bandiera 10, Mantova

Il sapore di questo giardino è antico e dolce. Sa di chiacchiere al tramonto, di bambini che giocano a nascondino tra i cespugli e dietro le colonne, di racconti che si tramandano e di sigarette fumate all’ombra. 

Ogni singola pianta qui ha il suo carattere e la sua storia, e si dedica un pensiero anche a chi oggi non c’è più. Il palazzo ha vocazione nobiliare: alcune sue parti furono costruite in epoca medioevale, altre durante il rinascimento, periodo in cui il complesso venne acquistato e abbellito dai conti Facipecora Pavesi. Tracce tardo-gotiche si vedono nel tranquillo loggiato, coperto dalle volte a vela, nei capitelli delle semicolonne in cotto che accompagnano le colonne in marmo bianco. Gli affreschi sotto agli archi, come il soffitto in legno decorato con gli stemmi delle famiglie mantovane, risalgono invece al Quattrocento, quando la famiglia napoletana dei Facipecora si trasferì in città al seguito di Antonello, uomo d’armi di Ludovico II Gonzaga. All’epoca quest’area faceva parte della Contrada degli Innocentini, nome che deriva dalla vetusta Chiesa di Santa Maria Gentile, detta appunto degli Innocentini, che nel 1786 venne sconsacrata, trasformata e annessa all’abitazione.

L’intero complesso venne venduto a fine Settecento ai Villani, nel 1966 passò ai Rimini Gallico. L’attitudine socievole del giardino si intuisce soprattutto nelle tante sedute sparse qua e là, angoli tranquilli dove leggere e confidarsi, mangiare un gelato o stare in silenzio. Addossata al muro si vede ancora la vecchia vite, morta una decina di anni fa dopo un’esistenza lunga e prospera: con i suoi tralci ricopriva completamente il terrazzino e la bontà dei suoi grappoli di uva bianca, di moscato, è ricordata con nostalgia. Vicino al tronco secco, sinuoso e contorto da sembrare una scultura, si trova un altro testimone vegetale: è la base di una grande palma che, essendo cresciuta troppo e diventata instabile, è stata recentemente tagliata. 

L’albero più significativo ora è il grande noce che svetta oltre i tetti: è arrivato negli anni Ottanta da Castanedo, nel bresciano, quando era poco più che un fuscello, trasportato in automobile dentro una cassetta. Oggi ci si interroga su come potarlo in modo intelligente, perché è collocato in una posizione difficile da raggiungere e non accenna a smettere di crescere. Si nota per esuberanza e vivacità anche il fico, nipote della pianta che originariamente si trovava nello stesso angolo. «Propriamente nipote degenere», specifica il padrone di casa, «perché mentre i frutti della pianta originale erano tanti e buonissimi, questo non produce nulla: i fichi si seccano da piccoli e poi si staccano».

Tra l’erba, nello spiazzo leggermente rialzato, protetto da una siepe di bosso, si incontrano anche il nocciolo, le ortensie e varie felci lussureggianti, evidentemente a loro agio in questo luogo ombroso e umido. La vera da pozzo in mattoni è stata realizzata negli anni Settanta, per non dimenticare il vecchio pozzo interrato scoperto proprio lì sotto. «Serviva più che altro ai bambini per saltarci dentro». Vicino al muro di cinta spicca l’edicola del pozzo Seicentesco, con la carrucola e l’acqua sul fondo: «negli anni lì dentro c’è caduto di tutto, adesso lo teniamo coperto soprattutto per evitare che ci finisca dentro il gatto dei vicini». Abbelliscono il portico, utilizzato come salottino estivo, il nespolo giapponese e i grandi oleandri, che per quanto sono belli è un peccato potare.

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